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Tatau Gin: il gin che sa di mare, tatuaggi e futuro

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Lo scorso maggio, durante il Roma Bar Show – crocevia annuale per chi vive e lavora nella cultura del bere – ho incontrato il bartender, formatore e consulente Giuseppe Capotosto.
Abbiamo parlato di Tatau Gin, un gin istriano dal cuore verde e dall’anima nera come l’inchiostro, e delle nuove strade che la miscelazione sta percorrendo: più consapevoli, più leggere, più sane.
Come hai conosciuto Tatau Gin?
Ci siamo conosciuti allo spazio espositivo di L’Import, distributore italiano di riferimento per gli spirits d’eccellenza. Tra le tante referenze internazionali, Tatau Gin, mi ha colpito prima ancora che per l’aroma, per il suo significato simbolico e visivo. È il gin ufficiale del mondo del tatuaggio.
Chi lo produce?
La sua origine è artigianale, istriana. Viene prodotto da una minuscola distilleria che lavora a impatto ambientale nullo, alimentata unicamente da energia solare. Un alambicco nato per la profumeria, adattato alla distillazione alcolica, estrae le botaniche per mezzo di vapore, evitando il contatto diretto con l’alcol. È un processo che racconta rispetto, precisione, ricerca.
Un’innovazione produttiva, ma anche un impatto estetico. Il colore, per esempio.
Esatto. Dopo la distillazione in stile London Dry, il gin viene infuso con alga spirulina e nero di seppia. Il risultato? Una tonalità profonda, quella del mare nelle ore notturne. Un nero che ricorda l’inchiostro, materia viva e simbolica per il mondo del tatuaggio. Una scelta cromatica che, pur restando naturale, riesce a evocare suggestioni visive intense.

Il colore, quindi, non è più solo decorazione. È linguaggio?
Assolutamente. Il colore in un drink è gesto comunicativo. È il primo elemento con cui entriamo in relazione. Se dovessimo attribuirgli un valore su scala da uno a dieci, direi dieci. Ma non può essere arbitrario: deve parlare la stessa lingua delle botaniche, dei materiali, della storia del prodotto.
L’alga spirulina è uno degli ingredienti più trendy oggi. Perché?
È un ingrediente funzionale e simbolico. È un superfood, certo, e poi dona un colore blu al liquido.
Quindi è un effetto del revival dei drink anni ’90?
Esattamente. Allora avevamo cocktail fluorescenti, quasi sintetici. Oggi quel colore ritorna, ma portando con sé un’etica diversa. I drink colorati stanno vivendo una seconda vita, più consapevole. Penso a grandi classici dimenticati come il Tequila Sunrise, che oggi può rinascere grazie a sciroppi home made, come la granatina al melograno fresco. L’elemento visivo si fonde con la qualità dell’ingrediente.
Che cosa pensi della tendenza low e zero alcol?
È un cambiamento necessario, non un semplice trend. I giovani consumano meno alcol, ma non rinunciano all’esperienza del bere. Vogliono prodotti veri, creati con la stessa attenzione di un cocktail alcolico. E oggi, finalmente, possiamo offrirglieli. Non è più l’alcol a qualificare il drink, ma l’intelligenza con cui viene costruito.
Il prezzo però oggi fa la differenza. I drink analcolici, spesso, costano uguale agli altri. È giusto?
Sì, il prezzo dovrebbe essere allineato. Perché non è la gradazione alcolica a generare valore, ma il pensiero e le materie prime che stanno dietro a ogni ricetta. Un cocktail ben fatto è tale, con o senza alcol. E chi sceglie di non bere, in genere, consuma con maggiore frequenza e costanza: un’opportunità, non un limite.
Come si costruisce quindi una carta cocktail che includa lo zero alcol in modo serio?
Con coerenza progettuale. Bisogna dare agli analcolici la stessa dignità: stessi strumenti, stesse tecniche, stesso storytelling. Non bastano gli analcolici di ripiego. Servono ingredienti freschi, miscele pensate, stagionalità e logica di food cost. Solo così si costruisce un’offerta completa, contemporanea, inclusiva.

Leggi l’articolo anche su Horecanews.it e MixologyItalia.com

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