Salvatore Calabrese: ‘Ecco perché i robot non sostituiranno mai un vero bartender’

The Maestro Salvatore Calabrese, intervistato da Nicole Cavazzuti al Roma Bar Show, racconta la sua visione del banco tra presente, passato e futuro.

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Da quasi sessant’anni Salvatore Calabrese è dietro al bancone. Ma definirlo semplicemente bartender sarebbe riduttivo. È un’autorità nel settore, ed è pluripremiato. L’ultimo riconoscimento è arrivato pochi giorni fa: il premio per il “Lifetime Achievement in Luxury Hospitality” assegnato da The Luxury Nightlife Awards.

È anche consulente per brand internazionali, ex presidente della United Kingdom Bartenders’ Guild, autore di best seller e inventore di attrezzature oggi diffuse. E non basta, è pure giudice richiestissimo nei concorsi di tutto il mondo.

Ha iniziato a dodici anni in Costiera Amalfitana. Oggi tutti lo chiamano “The Maestro”, e non per caso. La sua filosofia è semplice ma efficace: chi sta dietro al banco deve far sentire l’ospite a casa.

Ne abbiamo parlato con lui alla Terrazza Martini durante il Roma Bar Show. Un evento su invito, con una parata di star bartender e grande curiosità da parte del pubblico rimasto fuori, dietro le transenne.

L’intervista

Maestro, che cos’è per lei l’aperitivo italiano?

L’aperitivo è parte della nostra identità. Negli anni Sessanta non si beveva per moda, ma per stile. I locali diventavano salotti tra mezzogiorno e le cinque. Vermouth, sherry, vini fortificati: ognuno con un ruolo preciso. Non si beveva per distrarsi, ma per riconoscersi. Era un rito.

E lei quel mondo l’ha vissuto da subito.

Senza dubbio! A dodici anni servivo al bancone, a Maiori. A tredici tentai il mio primo Negroni. Il mio mentore mi diede una sberla. Non per rabbia, ma per insegnarmi che ci vuole tempo per capire un simbolo. Da lì ho imparato che servono disciplina, osservazione, errori. E pazienza.

Oggi com’è cambiato il mestiere?

Oggi i ragazzi sono preparati, conoscono tutto. Ma non basta. La differenza la fa l’accoglienza. Un drink perfetto non dice nulla se non sai leggere chi hai davanti. La tecnica si insegna. L’intelligenza emotiva, no. Quella si coltiva con il tempo.

E cosa pensa dei robot nei bar?

Shakerano bene, certo. Ma non capiscono se hai avuto una giornata storta. Non leggono i silenzi. Non sorridono con gli occhi. Il servizio è ascolto, empatia, intuizione. Nessuna macchina può farlo. Questo mestiere è profondamente umano.

Lei conosce sia i concorsi IBA che i 50 Best Bars. Che differenze vede?

Due mondi diversi. L’IBA è una comunità, un’eredità che si tramanda. I 50 Best premiano l’immagine, l’impatto. Non è questione di meglio o peggio. Ma un bar non vive solo di luci: vive di relazioni. L’IBA questo lo sa bene.

Possono convivere?

Certo, se non si confondono i ruoli. L’IBA guarda alla persona. I 50 Best al risultato. Uno è scuola. L’altro è show. Servono entrambi, ma vanno letti per quello che sono.

Che ruolo ha la memoria nel suo lavoro?

Essenziale. Le mode passano, ma ciò che succede dietro al banco resta. Ho visto storie d’amore, addii, silenzi eloquenti. Il bar è uno specchio. Se gli togli l’anima, resta un contenitore.

Che consiglio darebbe ai giovani bartender?

Ascoltate. Non correte. Non inseguite i like. Un cocktail perfetto conta poco se non lascia il segno. Studiate, viaggiate, ma soprattutto: osservate chi avete davanti. Non siete solisti. Siete artigiani dell’incontro.

Ha anticipato il trend dei low alcol. Cosa pensa della loro crescita?

È giusto che crescano. Ma devono avere anima. Anche un analcolico merita rispetto. Non è questione di alcol. È questione di attenzione. Anche un bicchiere d’acqua può essere speciale, se lo servi con cura.

Si emoziona ancora dietro al banco?

Sempre. Quando un cliente torna e dice “Avevo bisogno di essere qui”, capisco perché faccio questo lavoro. Non serviamo solo drink. Serviamo momenti. Emozioni. E ogni volta che sento quel grazie silenzioso, so che è una vocazione, non un mestiere.

Cos’è che fa davvero la differenza?

L’anima. La tecnica si può superare. L’ospitalità vera no. Non si insegna: si coltiva. Se ce l’hai, resta con te.

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