Olivicoltura italiana 2025: ripresa produttiva in corso ma manca una strategia di sistema

A fine 2025 la ripresa produttiva del settore olivicolo è un segnale positivo, ma il rilancio strutturale resta lontano e la transizione strategica da costruire

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Il comparto olivicolo italiano si avvia alla chiusura del 2025 con segnali contrastanti. La produzione mostra una ripresa significativa, ma le criticità strutturali del settore restano evidenti, mentre il tanto atteso Piano Olivicolo Nazionale fatica a tradursi in azioni concrete. Un quadro che evidenzia la distanza tra potenzialità e realizzazione effettiva.

L’olivicoltura italiana arriva a fine 2025 con un quadro complesso e segnato dall’incertezza. Dopo un 2024 difficile, penalizzato dalla siccità e da rese in forte calo, le stime ISMEA per la campagna 2025/2026 indicano un ritorno sopra quota 300 mila tonnellate di olio d’oliva, con una produzione compresa tra 340 e 360 mila tonnellate, pari a circa +30% rispetto alla campagna precedente (248 mila tonnellate nel 2024/2025).

Un segnale di ripresa incoraggiante, sostenuto da condizioni di raccolta più favorevoli e da un rinnovato ottimismo tra gli agricoltori, ma che non basta ancora a definire un vero rilancio strutturale del comparto. I prezzi restano infatti elevati, tra 9,00 e 9,90 euro al chilo per l’extravergine nazionale, con punte oltre i 10 euro/kg nelle aree meridionali, un livello che riflette la scarsità del prodotto più che una piena valorizzazione industriale della filiera.

La prima impressione, osservando il comparto, è quella di un Paese che si muove in direzioni parallele ma non sempre convergenti. Il Sud, con Puglia, Calabria e Sicilia in testa, traina la ripresa con una sorprendente capacità di adattamento, anche grazie a investimenti regionali e cooperazioni territoriali. Il Centro e il Nord, invece, mostrano ancora segni di vulnerabilità, schiacciati da un clima imprevedibile, da parassiti aggressivi e da un modello produttivo che fatica a innovarsi.

Tasty looking olives extra virgin olive oil and olive leafs on dark wooden background.

È in questo quadro che il Piano Olivicolo Nazionale da 300 milioni di euro dovrebbe entrare in azione. Il documento ministeriale, invocato per anni e finalmente definito nel 2025, rappresenta la promessa di un cambio di paradigma: rigenerare gli oliveti improduttivi, incentivare nuovi impianti, combattere la Xylella, valorizzare le produzioni Dop, Igp e Bio, promuovere un marchio “Evo di Alta Qualità” e favorire l’aggregazione della filiera. Un piano che nasce con visione e risorse ma che, come spesso accade, vede la distanza tra il progetto e la sua esecuzione ancora ampia.

Ad oggi la macchina amministrativa si muove con lentezza, le risorse non sono ancora pienamente operative e la governance di settore, pur avviata, non ha ancora assunto quella chiarezza di ruoli e responsabilità che servirebbe per trasformare la pianificazione in azione.

Il vero nodo, però, non è solo istituzionale, è culturale ed economico, con un’olivicoltura italiana che da troppo vive in una tensione tra valore simbolico e valore reale. Da un lato, l’extravergine come icona del made in Italy, sinonimo di qualità, biodiversità e tradizione, dall’altro, un prodotto che nei fatti resta ostaggio della logica del prezzo, della competizione al ribasso e delle vendite sottocosto e finché l’olio sarà trattato come una commodity e non come un bene di valore, ogni piano rischierà di tradursi in un’operazione di breve respiro.

Di fatto la qualità, da sola, non basta, va raccontata, organizzata e difesa lungo tutta la catena del valore. Ciò che manca ancora è un disegno condiviso, il settore ha bisogno di una organizzazione interprofessionale unica capace di unire produttori, frantoi e industria in una strategia comune, di un sistema informativo efficace per la tracciabilità, e di un’alleanza più solida tra ricerca e imprese.

La frammentazione resta la più grande nemica della competitività, e il rischio è che la pioggia di risorse pubbliche si disperda in mille rivoli locali senza incidere sulle debolezze strutturali.

La lezione che fino a questo momento si legge dalle evidenze del 2025 è duplice, da un lato, il settore ha dimostrato di saper reagire, ha retto agli shock climatici, ha ritrovato fiducia nei mercati e ha ottenuto l’attenzione del decisore politico, dall’altro, ha confermato che la resilienza da sola non fa sviluppo, servono visione, coordinamento e coraggio di pianificare a dieci anni, non a uno.

Il Piano Olivicolo Nazionale può essere il punto di svolta ma solo se diventa un patto concreto tra istituzioni e filiera. L’olivicoltura italiana è di fronte a un bivio, scegliere se restare una somma di eccellenze isolate o diventare un settore industrialmente maturo, capace di fare sistema.

Il 2025 si avvia a consegnare un patrimonio di potenzialità, ma anche un avvertimento: le risorse non bastano, serve visione e questa, ancora, non si compra con un decreto.

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